Segnaliamo un articolo di Michela Marzano (Repubblica 11.9.14) estratto
dell’intervento che la filosofa terrà domani al Festival di Filosofia, in
programma a Modena, Carpi e Sassuolo fino a domenica.
Perchè tanta ricerca di visibilità intorno a noi? Profili da inserire- aggiornare- modificare- ovunque, incontenibili "mi piace", interventi spasmodici nei social network rivelano l'incertezza di valere qualcosa e il conseguente assillante bisogno di conferma dallo sguardo altrui.
Ignorando o trascurando il fatto vero che il valore dell'essere sta in noi stessi, in ciò che siamo e diamo, in ciò che costruiamo con le nostre energie e le nostre risorse.
“”PROTAGONISMO . Se c’è un termine che sembra riassumere
perfettamente l’epoca contemporanea, è proprio questo. Nella sua duplice
accezione di “visibilità” e di “riconoscimento”. Da un lato, il bisogno
di essere sempre al centro dell’attenzione è ormai spasmodico, come se
l’unico modo di esistere fosse quello di ottenere visibilità e
notorietà. Dall’altro lato, i meccanismi di anonimato e
d’intercambiabilità che dominano molti ambiti della vita spingono molte
persone a rivendicare il riconoscimento per la propria singolarità.
Anche se poi non c’è nessun legame logico o concettuale tra visibilità e
riconoscimento. Anzi. Talvolta è proprio a forza di voler compiacere
tutti per accumulare i “mi piace” sui social network, che si finisce col
perdere di vista chi si è, e quello in cui si crede veramente.
Quando il protagonismo si riduce alla notorietà effimera che si può conquistare sulla scena mediatica, i compromessi diventano il pane quotidiano. Ciò che conta non è la propria individualità, ma l’immagine di sé che si cerca di costruire alla ricerca del consenso. «Il bisogno di gloria», scriveva il filosofo Emil Cioran nei Quaderni, «deriva da un senso di totale insicurezza circa il proprio valore, dalla mancanza di fiducia in se stessi». Se non si ha alcuna certezza di valere, d’altronde, sembra evidente cercare conferme continue e dipendere dalla sguardo altrui. Se si “vale” solo in base al numero di follower che ci seguono, è difficile rinunciarci e smetterla di fare di tutto per conquistarli. Tutto pur di essere protagonisti. Tutto pur di non scomparire dalla scena. Anche se poi ci si svende per poco. E a forza di tradire e di tradirsi, ci si perde. Come capirlo, però, in un mondo in cui si è sistematicamente rinviati alla propria inutilità?
Il problema di fondo è proprio qui: a forza di essere “risorse”, e in quanto tali interscambiabili perché di fatto “l’uno vale l’altro”, nessuno si sente più riconosciuto. E il riconoscimento, come spiega bene Axel Honneth, è la chiave di volta della fiducia. Si fanno sforzi, ci si impegna, ci si batte. Ma se poi non si viene riconosciuti, e quindi non si viene amati così come si è, non si è protetti a livello giuridico da un sistema che rispetti la propria dignità e non si ha l’opportunità di trovare un lavoro attraverso cui non solo garantire il proprio sostentamento ma anche consolidare la propria identità — è proprio attraverso i concetti di amore, diritto e lavoro che Honneth declina la nozione di riconoscimento — non si può essere protagonisti della propria vita. Ci si trascina alla ricerca di certezze. Ci si schianta contro l’anonimato. E allora, invece di rivendicare il diritto a un protagonismo reale, si scivola nell’illusione di conquistare importanza e valore attraverso il protagonismo effimero dell’apparenza. Si ripete una, mille, centomila volte “io”, ma di fatto l’io si sbriciola perché ridotto a mera immagine. La controfigura di un protagonista. Che recita un ruolo imparato a memoria, senza più sapere da dove viene e verso dove va.”"
Quando il protagonismo si riduce alla notorietà effimera che si può conquistare sulla scena mediatica, i compromessi diventano il pane quotidiano. Ciò che conta non è la propria individualità, ma l’immagine di sé che si cerca di costruire alla ricerca del consenso. «Il bisogno di gloria», scriveva il filosofo Emil Cioran nei Quaderni, «deriva da un senso di totale insicurezza circa il proprio valore, dalla mancanza di fiducia in se stessi». Se non si ha alcuna certezza di valere, d’altronde, sembra evidente cercare conferme continue e dipendere dalla sguardo altrui. Se si “vale” solo in base al numero di follower che ci seguono, è difficile rinunciarci e smetterla di fare di tutto per conquistarli. Tutto pur di essere protagonisti. Tutto pur di non scomparire dalla scena. Anche se poi ci si svende per poco. E a forza di tradire e di tradirsi, ci si perde. Come capirlo, però, in un mondo in cui si è sistematicamente rinviati alla propria inutilità?
Il problema di fondo è proprio qui: a forza di essere “risorse”, e in quanto tali interscambiabili perché di fatto “l’uno vale l’altro”, nessuno si sente più riconosciuto. E il riconoscimento, come spiega bene Axel Honneth, è la chiave di volta della fiducia. Si fanno sforzi, ci si impegna, ci si batte. Ma se poi non si viene riconosciuti, e quindi non si viene amati così come si è, non si è protetti a livello giuridico da un sistema che rispetti la propria dignità e non si ha l’opportunità di trovare un lavoro attraverso cui non solo garantire il proprio sostentamento ma anche consolidare la propria identità — è proprio attraverso i concetti di amore, diritto e lavoro che Honneth declina la nozione di riconoscimento — non si può essere protagonisti della propria vita. Ci si trascina alla ricerca di certezze. Ci si schianta contro l’anonimato. E allora, invece di rivendicare il diritto a un protagonismo reale, si scivola nell’illusione di conquistare importanza e valore attraverso il protagonismo effimero dell’apparenza. Si ripete una, mille, centomila volte “io”, ma di fatto l’io si sbriciola perché ridotto a mera immagine. La controfigura di un protagonista. Che recita un ruolo imparato a memoria, senza più sapere da dove viene e verso dove va.”"
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