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mercoledì 31 maggio 2017

Ipazia nella Scuola di Atene

la Scuola di Atene di Raffaello, 1509-1511

"Benché alcuni interpreti abbiano attribuito alla figura in foto l’identità di Francesco Maria della Rovere, nipote di papa Giulio II, committente dell’affresco, la maggioranza è concorde nel riconoscervi le fattezze della filosofa neo-platonica del IV secolo Ipazia d’Alessandria. Giovanni Reale, grande filosofo italiano venuto a mancare da qualche anno, fu talmente colpito dalla magnificenza e dalla perfezione della figura femminile creata da Raffaello da attribuirle il valore simbolico di rappresentante del concetto di kalokagathìa greca (eccellenza umana, che coniuga bellezza e bontà). Sarebbe pertanto facile tradurre i due elementi appena considerati, l’eccellenza di una  delle poche donne ricordate nella storia della filosofia e il valore simbolico di ogni bellezza e bontà(...) Ipazia, a capo di una delle più feconde e rigogliose scuole filosofico-scientifiche dell’epoca, venne uccisa da personaggi (probabilmente cristiani) ostili al ruolo che la libera pensatrice aveva assunto ad Alessandria. 
A chi avesse avuto il privilegio di osservare dal vivo ‘La scuola di Atene’, o almeno di contemplarne con attenzione i particolari nelle foto e nelle riproduzioni, non sarà sfuggito che la figura femminile è l’unica a rivolgere lo sguardo verso  l’esterno, creando un rapporto personale e privilegiato con noi che osserviamo. Questa ‘dipendenza’ dal rapporto non sta a significare subordinazione ma, piuttosto, la fragilità di una bellezza che può venir ferita in qualsiasi istante. Venne ferita quando si negò ad una donna, in quanto  tale, di professare liberamente delle idee; viene ferita dall’uccisione di donne che hanno dedicato la loro vita ad altri e che noi, nel nostro silenzio indifferente, feriamo doppiamente; viene ferita infine in contesti culturali nel quale piuttosto che curare e valorizzare la fragilità di questa bellezza, la si intende come sintomo di debolezza e subordinazione.
     Lo sguardo di Ipazia è invece un messaggio di pace. Non parliamo qui della semplice (e non trascurabile) assenza di guerra, ma di quella pace positiva che significa sviluppo di valori e virtù fondamentali per la società. Tra questi c’è il riconoscimento dell’uguaglianza della donna rispetto all’uomo e, parallelamente, l’esaltazione della sua specificità. Non è un caso che il sostantivo pace, sostantivo femminile, venga dalla radice indoeuropea pak, pag che stava per ‘legare, unire’; è in fondo ciò che lo sguardo fiero e fragile di Ipazia ci chiede".

giovedì 18 maggio 2017

A TORINO trentesima edizione del Salone del libro


post di Roberto Testa
da Torino




Oggi, 18 maggio 2017, in occasione della trentesima edizione del Salone Internazionale del Libro di Torino, il professor Massimo Cacciari, filosofo, politico (ex sindaco di Venezia) e scrittore, ha presentato il libro "Il futuro dell'immagine" (Il Mulino, 2017) di Federico Vercellone, docente ordinario di Estetica presso la Facoltà di Lingue e Letterature straniere dell'Università di Torino.
Tra i tanti temi toccati, spiccano il rapporto dell'uomo con la tecnologia (media, smartphone, internet) e l'importanza e la centralità che assumono le immagini nella società in cui viviamo. 


martedì 16 maggio 2017

Sartre, il filosofo con la nausea








video DA RAI SCUOLA, 4'



video teche Rai, 2'





articolo di Franco Volpi

È dunque questa, la Nausea: quest'accecante evidenza? Quanto mi ci son lambiccato il cervello! Quanto ne ho scritto! 
Ed ora lo so: io esisto — il mondo esiste — ed io so che il mondo esiste. Ecco tutto. 

Ma mi è indifferente. È strano che tutto mi sia ugualmente indifferente: è una cosa che mi spaventa. 

È cominciato da quel famoso giorno in cui volevo giuocare a far rimbalzare i ciottoli sul mare. Stavo per lanciare quel sassolino, l'ho guardato, ed è allora che è incominciato: ho sentito che esisteva

E dopo, ci sono state altre Nausee; di quando in quando gli oggetti si mettono ad esistervi dentro la mano. C'è stata la Nausea del «Ritrovo dei ferrovieri» e poi un'altra, prima, una notte in cui guardavo dalla finestra, e poi un'altra al giardino pubblico, una domenica, e poi altre. 

Ma non era mai stata così forte come oggi. (La Nausea)

lunedì 15 maggio 2017

filosofia e scienza per Karl Popper


KARL POPPER
1902-1994
  
La scienza non è un insieme di asserzioni certe, o stabilite una volta per tutte, e non è neppure un sistema che avanzi costantemente verso uno stato definitivo. La nostra scienza non è conoscenza (epistème): non può mai pretendere di aver raggiunto la verità, e neppure un sostituto della verità, come la probabilità.

Non il possesso della conoscenza, della verità irrefutabile, fa l'uomo di scienza, ma la ricerca critica, persistente e inquieta, della verità

La scienza è ricerca della verità. Ma la verità non è verità certa



Tutte le teorie restano essenzialmente provvisorie, congetturali o ipotetiche, anche quando non ci sentiamo più in grado di dubitare di esse.


Credo che ci sia un solo argomento a difesa dell'esistenza della filosofia.
È questo: lo sappiano o no, tutti gli uomini hanno una filosofia.
Certo, può ben darsi che nessuna delle nostre filosofie valga un gran che, ma la loro influenza sui nostri pensieri e sulle nostre azioni è grande, e spesso incalcolabile.







Karl Popper, Logica della scoperta scientifica (Logik Der Forschung), 1934







 il marxismo non è falsificabile, non può essere considerato  teoria scientifica
LA DEMARCAZIONE TRA SCIENZA E PSEUDOSCIENZA

di Karl Popper

IL NEOPOSITIVISMO
una presentazione generale

martedì 9 maggio 2017

il tempo della vita per Bergson e Proust

Il filosofo e futuro Premio Nobel Henri Bergson e il futuro autore della   Recherche erano in un certo senso parenti. Bergson aveva sposato infatti una cugina di Marcel, Louise Neuburger. 

Nonostante il filosofo e il romanziere vengano spesso accomunati da critici e specialisti che vedranno nelle loro opere una reciproca influenza, e nonostante abbiano, nella vita reale, tante cose in comune (legami familiari, estrazione sociale) non si stabilirà  però tra loro una vera vicinanza. 

Entrambi tengono molto a sottolineare la loro indipendenza intellettuale: 
Bergson scrive che non c'è alcun rapporto tra il suo pensiero e altre dottrine che potrebbero far ritenere, a chi lo leggesse distrattamente, di esserne stato influenzato. 

Da parte sua, Proust rifiuta decisamente, per Swann, l'etichetta di "romanzo bergsoniano".

Tuttavia è innegabile la presenza di influenze bergsoniane significative nell'opera di Proust






«Vi è un flusso continuo […]. È una successione di stati, ciascuno dei quali preannunzia quello che lo segue e contiene quello che lo precede. In verità, essi non sostituiscono stati molteplici se non quando già son passato oltre ad essi, e mi rivolgo indietro per osservarne la traccia: mentre li provavo erano così solidamente organizzati, così profondamente animati di una vita comune, che non avrei saputo dire dove uno qualsiasi di essi finisse e l’altro cominciasse. In realtà, nessuno di essi comincia o finisce, tutti si prolungano gli uni negli altri» 

 «Le nostre percezioni sono senza dubbio impregnate di ricordi, e inversamente un ricordo (…) non ridiventa presente che prendendo a prestito qualche percezione del corpo in cui esso s’inserisce. Così questi due atti, percezione e ricordo, si compenetrano sempre, si scambiano dunque qualcosa delle loro sostanze mediante un fenomeno d’endosmosi» 

«Non vi è coscienza senza memoria, non continuazione di uno stato senza che si aggiunga al sentimento presente il ricordo dei momenti passati. In questo consiste la durata. La durata interiore è la vita continua di una memoria che prolunga il passato nel presente: o che il presente racchiuda esplicitamente l’immagine, senza posa crescente, del passato […]. Senza questo sopravvivere del passato nel presente non vi sarebbe durata ma solo istantaneità» 

«Che cos’è dunque che le oscillazioni di un pendolo misurano? A rigore, si ammetterà che la durata interiore, percepita dalla coscienza, si confonde con l’incastrarsi dei fatti di coscienza gli uni negli altri, insieme all’arricchimento graduale dell’io; ma il tempo che l’astronomo introduce nelle sue formule, il tempo che i nostri orologi dividono in particelle uguali, quel tempo, si dirà, è un’altra cosa; è una grandezza misurabile, e di conseguenza omogenea» 

 Henri Bergson




"Secondo il filosofo francese Bergson, la durata è una specie di successione che riguarda il presente, il passato e il futuro, e questa successione ha il carattere di un flusso. La tesi secondo cui il tempo concretamente sperimentato fluisca, significa che le sue parti non sono in un rapporto di pura esteriorità le une con le altre. Se ci fosse un distacco assoluto fra i tre momenti della temporalità, se ci fosse una reciproca indipendenza come quella che si può scorgere tra due oggetti distanti nello spazio, allora nulla scorrerebbe. 
Da un lato, il fluire del tempo comporta che qualcosa prima era presente e ora non lo è più e che diventa appunto passato, dall’altro che questo passato sia in qualche modo mantenuto nel campo dell’esperienza attuale. Ciò vuol dire che tale esperienza passata viene comunque modificata. 
Infatti se tutto si conservasse integralmente, senza alterazioni, non avremmo affatto la temporalità, ma una stasi perfetta. 
Ma la durata sta tra l’identico e il differente, nel senso che è caratterizzato da questo continuo e costante flusso che non può essere interrotto e da una serie di istanti inevitabilmente diversi tra loro. 

Anche per Proust, è la coscienza che ci dà il presupposto dell’accertamento attraverso l’esperienza della continuità del tempo, della esistenza di un io permanente. Tale concetto è chiaro nello splendido passaggio in cui Swann fa riferimento al suono del campanello della casa dei genitori. 

«Il fatto che dunque questo scampanellio c’era sempre e che così, tra di esso e l’istante presente, c’era tutto questo passato trascorso in modo indefinito, che io non sapevo di portare (con me). Quando c’era stato lo scampanellio io esistevo già e, in seguito, perché io lo udissi ancora, era necessario che non ci fosse stata discontinuità, che neanche per un istante io prendessi riposo, io cessassi di esistere, di pensare, di avere coscienza  di me, poiché questo istante passato mi appartenesse ancora, si che io potevo ancora ritrovarlo, potevo ritornarvi, solo che discendessi più profondamente in me stesso».

Per mezzo del tempo è possibile riunificare le esperienze passate e presenti. Le nostre azioni sono identificabili e distinguibili in base alla costellazione spaziale e soprattutto temporale in cui si realizzano. 

 «L’istante è qualche cosa che è tempo senza essere nel tempo, […]. Esso sfugge all’ordine cronologico, è un altro tempo, come un’assenza importante, silenzio e sonorità insieme. 
Non si tratta di una visione del presente che sostituisce il passato, ma in esso vige un perfetto rapporto di coincidenza e simultaneità; è una presenza che non si divide e un passato che nel contempo si rivela presente, co-implicato con esso» 
Marcel Proust



fonte:


Proust (1871-1922), in gioventù aveva ascoltato le lezioni del filosofo Henri Bergson (1859-1941), la cui concezione del tempo come dimensione interiore lasciò una grande traccia nella cultura e nella letteratura di primo Novecento. Tale riflessione riprendeva in realtà spunti antichi, presente già nel libro X delle Confessioni di sant'Agostino: secondo quest'ultimo il tempo è una realtà non oggettiva, ma solo soggettiva, una distensione dell'anima. Esso va misurato nell'interiorità dell'individuo, in base a ciò che si è impresso nella sua memoria: il tempo, scrive Agostino, è memoria del passato, attenzione al presente e attesa del futuro.




Tempo e durata per Bergson
Bergson sostiene che sussiste una differenza sostanziale fra il tempo esteriore, fondato sulla successione degli istanti, come sono registrati dall'orologio e dal calendario e il tempo interiore.
Quest'ultimo, non descrivibile con il criterio della successione, è il tempo vissuto, la cui prima qualità è la durata.
Bergson polemizza dunque con il concetto fisico-matematico di tempo, assunto dalle scienze esatte. Per Bergson questo tempo non è quello reale, vero, cioè non è il tempo astratto, una successione di istanti statici e uguali. Il tempo come fatto psichico ha invece caratteristiche qualitativi, non quantitativi.
La nostra coscienza vive il tempo come durata, perché gli atti che compongono uno nell'altro:
in altre parole, l'atto presente porta in sé il processo da cui proviene e insieme è qualcosa di nuovo, che contribuirà a far scaturire nuovi atti, in una durata, appunto, senza interruzioni o salti.
Perciò, per Bergson, un ruolo importante nel conoscere viene esercitato dalla memoria. Essa conserva le nostre esperienze passate, ma in modo non statico, perché le fa continuamente interagire con gli stati di coscienza presenti.



La memoria, il tempo e l'arte per Proust 
Queste idee esercitarono un notevole influsso sul romanzo novecentesco e su Proust in particolare. Proust constata come il tempo disgreghi e muti ogni cosa: ci fa allontanare dal noi che siamo stati, al punto che neppure più ci riconosciamo. L'unico elemento che possiamo opporre a una simile dissoluzione è la memoria. Non la memoria volontaria, però, attraverso cui noi ci sforziamo di ricostruire il passato, bensì quella involontaria. Essa opera per analogia, nel senso che una sensazione può richiamarne alla mente un'altra analoga, prodottasi nel passato; e non ci fa semplicemente ricordare il passato, ma ci permette di riviverlo, di recuperarlo nella sua pienezza e autenticità. E' un fenomeno di per sé non insolito (in qualche modo tutti lo abbiamo provato), ma che Proust rende, nella Recherche, uno strumento d'indagine privilegiato e sistematico.
In conclusione: il nostro tempo è vivo in noi; il mondo esteriore, in un certo senso, per Proust non esiste, perché rappresenta solo ciò che, in un certo momento, noi creiamo e che, subito dopo, muta con il nostro stato d'animo, sottoposto al fluire del tempo (avviato dall'accendersi della memoria).



IL TEMPO: RIFLESSIONI FILOSOFICHE
IN

                                                                           Chronos: figure filosofiche del tempo

                                                                                                                Di Giuseppe Barletta

martedì 2 maggio 2017

La dottrina dell'amicizia in Aristotele





Breve percorso tratto dai libri IX e X dell'Etica Nicomachea



1. L'amicizia è necessaria



Secondo Aristotele l'amicizia è una virtù indispensabile all'uomo: nessuno sceglierebbe di vivere senza amici, anche se possedesse tutti gli altri beni. Gli amici sono necessari nella prosperità come nel bisogno, nella giovinezza come nella vecchiaia, nella vita privata come nella vita pubblica. Gli amici sono il più grande dei beni esterni. L'uomo è portato per natura a vivere con gli altri e a crearsi amici. All'uomo felice non servono amici utili o piacevoli, perchè ha già i beni che da questi potrebbero venire.


Ha invece bisogno di amici buoni, cui donarsi, con i quali condividere i discorsi e il pensiero.



2. I tre generi di amicizia



L'uomo ama ciò che è degno di essere amato: cioè ciò che è buono o utile o piacevole: da questi tre oggetti derivano le tre specie di amicizia.. L'amicizia non è solo una benevolenza reciproca, ma una una benevolenza di cui si è consapevoli, una benevolenza che si sceglie. L'amicizia fondata sul piacere o sull'utilità è solo momentanea: se l'amico non provoca più utile o piacere, l'amicizia viene meno. 

Questo genere di amicizie è quindi molto debole. Infatti i giovani cercano in genere amicizie fondate sul piacere, gli anziani sul bisogno e l'utile. Ma tutti possono cercare le amicizie perfette, fondate sul bene.








3. L'amicizia perfetta



L'amicizia perfetta è solo quella tra persone buone, simili nella loro virtù. In questo genere di amicizia, ognuno dei due vuole il bene dell'altro. L'uomo virtuoso è anche utile e piacevole, però l'utilità è il piacere non sono il fondamento dell'amicizia. L'amicizia fondata sulla virtù è stabile, permanente, è tuttavia molto più rara degli altri generi di amicizia, perchè gli uomini virtuosi, gli uomini buoni, non sono tanti.


L'amicizia richiede tempo e consuetudine nella condivisione: il desiderio di diventare amici può nascere velocemente, l'amicizia si forma però con maggiore lentezza.



4. Caratteri delle diverse forme di amicizia



L'amicizia che stringono tra loro gli uomini buoni è perfetta, è stabile come la virtù, e non può essere rovinata dalle calunnie di altre persone. (Difficilmente si presta fede a chi parla male dell'amico che da tempo conosciamo). Gli altri due tipi di amicizia presentano solo una certa somiglianza con questa e sono quindi meno duraturi. L'amicizia motivata dall'utile viene meno quando viene meno l'utile, l'amicizia motivata dal piacere viene meno quando viene meno il piacere. Solo gli uomini buoni possono essere veramente amici: gli uomini cattivi possono essere amici solo in modo limitato, in quanto vivono le loro relazioni avendo come fine l'utile o il piacere. Gli amici desiderano la comunione di vita e non si addice tra gli amici una vita solitaria, isolata. Il vivere insieme è possibile solo se si condividono interessi e gusti, e questo avviene solo negli uomini buoni.


L'amicizia non è uno stato d'animo passeggero ma è una scelta libera, consapevole e duratura.



5. Il numero degli amici



Moltissime possono essere le amicizie fondate sul piacere e sull'utile, poche invece quelle fondate sul bene, perchè pochi uomini sono virtuosi. L'amicizia fondata sul piacere è tipica dei giovani, l'amicizia fondata sull'utile è tipica dei mercanti, l'amicizia fondata sul bene è tipica degli uomini virtuosi. Con poche persone si può trascorrere la vita in comune. L'amore coniugale è possibile per una sola persona, una forte amicizia è possibile solo verso pochi.


Chi pretende di essere amico di tutti, in realtà, non è amico di nessuno.



6. La fine dell'amicizia



Quando due amici non trovano più l'uno nell'altro ciò che cercano, la loro amicizia ha termine. Questo è ovvio nel caso delle amicizie basate sul piacere e sull'utile; quando però l'amicizia è fondata sulla virtù, la sua rottura può avvenire solo quando uno dei due amici rimane fermo allo stesso livello, mentre l'altro progredisce sulla strada della virtù, oppure quando gli amici di un tempo diventano stabilmente cattivi.


Se però la loro malvagità può essere corretta, non bisogna abbandonarli, ma sforzarsi di ricondurli alla virtù.



7. L'uomo virtuoso ama se stesso



L'uomo virtuoso ama se stesso, l'amicizia per il prossimo affonda le proprie radici nell'amore che si ha per sè. L'amico viene considerato un altro se stesso, e vengono a lui estesi i sentimenti di amore che si hanno per sè. L'uomo virtuoso gioisce nel contemplare la virtù dell'amico, perchè la sente come propria. Gli uomini cattivi invece non sono amici di se stessi, e quindi non possono provare amicizia per nessun altro. I cattivi cercano di trascorrere del tempo con altre persone solo per fuggire da se stessi: se rimangono soli sono tormentati dal ricordo dei loro crimini passati e di quelli che faranno.


La persona buona, al contrario, prova piacere nello stare da sola, pensando ai propri ricordi e alle proprie aspettative.