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domenica 22 gennaio 2017

Memoria e globalizzazione secondo Bauman



Zygmunt Bauman, filosofo e sociologo da poco scomparso, in questo breve testo collega la necessità della memoria al rispetto dell'uomo e dell'umanità, unica strada da percorrere per salvare sopravvivenza e giustizia nell'epoca della globalizzazione

martedì 17 gennaio 2017

lunedì 9 gennaio 2017

un saluto a Bauman


Ci ha lasciato oggi il filosofo e sociologo polacco Zygmunt Bauman

Nato a Poznan in Polonia nel 1925, viveva e insegnava da tempo a Leeds, in Inghilterra, ed era noto in tutto il mondo per essere il teorico della postmodernità e della cosiddetta "società liquida", che ha spiegato in uno specifico ciclo della sua produzione saggistica, dall'"amore liquido" alla "vita liquida". 

Per Bauman, infatti,  il tessuto della società contemporanea, sociale e politico, era "liquido", cioè sfuggente a ogni categorizzazione del secolo scorso e quindi inafferrabile. 

Questo a causa della globalizzazione, delle dinamiche consumistiche, del crollo delle ideologie che nella postmodernità hanno causato uno spaesamento dell'individuo e quindi la sua esposizione brutale alle spinte, ai cambiamenti e alle "violenze" della società contemporanea dell'incertezza, che spesso portano a omologazioni collettive immediate e a volte inspiegabili per esorcizzare la "solitudine del cittadino globale", come si chiama uno dei suoi lavori più celebri.


LA CONCEZIONE DELL’IDENTITÀ secondo Bauman

dalla globalizzazione alla crisi socio-culturale nell'esistenza umana

Anche sulle migrazioni le  idee di Bauman sono state illuminanti:

"Questi migranti, non per scelta ma per atroce destino, ci ricordano quanto vulnerabili siano le nostre vite e il nostro benessere. Purtroppo è nell'istinto umano addossare la colpa alle vittime delle sventure del mondo. E così, anche se siamo assolutamente impotenti a imbrigliare queste estreme dinamiche della globalizzazione, ci riduciamo a scaricare la nostra rabbia su quelli che arrivano, per alleviare la nostra umiliante incapacità di resistere alla precarietà della nostra società. 

E nel frattempo alcuni politici o aspiranti tali, il cui unico pensiero sono i voti che prenderanno alle prossime elezioni, continuano a speculare su queste ansie collettive, nonostante sappiano benissimo che non potranno mai mantenere le loro promesse. 

Ma una cosa è certa: costruire muri al posto di ponti e chiudersi in 'stanze insonorizzate' non porterà ad altro che a una terra desolata, di separazione reciproca, che aggraverà soltanto i problemi".

per ascoltarlo ancora una volta, ecco una sua intervista del 2012

IL SENSO DELLA VITA SECONDO BAUMAN


Bauman ha svelato il volto cupo e tragico dell’ultra-capitalismo, feroce espressione di creazione e gestione della disuguaglianza tra gli individui, dove all’arricchimento smodato dei pochi ha corrisposto il rapido, crescente impoverimento dei molti. 

Polacco di origine (nato a Poznan nel 1925, viveva a Leeds in Inghilterra, dove è stato docente) era passato attraverso il cattolicesimo e il comunismo, traendo spunti importanti da entrambi, ed era diventato uno dei più formidabili osservatori critici della contemporaneità. Ci ha aiutato a guardare dietro lo specchio ammiccante del post-moderno, sotto la vernice lucente dell’asserita “fine della storia”, ossia della proclamata nuova generale armonia tra Stati e gruppi sociali, rivelatasi il suo opposto, ossia una terribile guerra dei ricchi ai poveri, ennesima manifestazione della lotta di classe dall’alto. Ha guardato, Bauman, alle “Vite di scarto” (altra sua opera), generate incessantemente dall’infernale “megamacchina” del “finanzcapitalismo” (richiamo con queste espressioni un altro grande scomparso, Luciano Gallino), o dalle assurdità crudeli del “capitalismo parassitario”, come Bauman lo ha chiamato. 

Con una immensa produzione - volumi, saggi, articoli, conferenze, proseguita fino all’ultimo – è come se quest’uomo mite e affabile, avesse voluto tendere una mano a tutti coloro che dal processo di mostruosa produzione di denaro attraverso denaro, erano esclusi; quasi a voler “salvare”, con le sue parole, gli schiacciati dai potentati economici, a voler dar voce a quanti, in una “società sotto assedio” (ancora un suo titolo), dominata dalla paura, dal rancore, dall’ostilità, vedevano e vedono le proprie vite disintegrate. 

La società “liquida” è questa nostra società, che ha perso il senso della comunità, priva di collanti al di là del profitto e del consumo, una società il cui imperativo, posto in essere dai ricchi contro i poveri, dai potenti contro gli umili, è ridotto alla triade: “Produci/Consuma/Crepa”. Le opere di Bauman, che, per quanto fortunate editorialmente sono state cibo per pochi, purtroppo, sono un tesoro cui attingere per comprendere le ingiustizie del tempo presente, denunciarle, e se possibile, combatterle"

Angelo D' Orsi, 

DAL BLOG CESIM

domenica 8 gennaio 2017

Kierkegaard e Munch: angoscia e disperazione



Il pittore norvegese Edvard Munch (1863-1944) fu profondamente ispirato dalla filosofia esistenzialistica di Kierkegaard, filosofo danese dell'Ottocento (1813-1855).

Emblematico è il fatto che la ricerca filosofica dell’uno e la creazione artistica dell’altro sono entrambe la risposta a un’esistenza dolorosa, vissuta come segno misterioso di un tragico destino. 

Kierkegaard (1813-1855) nelle pagine del suo Diario parla di un “grande terremoto” che sconvolse la sua esistenza e di un “castigo di Dio” abbattutosi sulla sua anima.

Munch a sua volta scrive: “La mia arte ha le sue radici nelle riflessioni sul perché non sono uguale agli altri, sul perché ci fu una maledizione sulla mia culla, sul perché sono stato gettato nel mondo senza poter scegliere”. 


Oltre a ciò, emergono molte affinità tra i temi dell’angoscia e della disperazione come sono trattati da Kierkegaard e le opere di Munch.




                                                                  ANGOSCIA, 1894

L'angoscia o smarrimento di fronte al mondo

I cromatismi violenti e le linee sinuose e dense di questo quadro, intitolato Angoscia (1894) esprimono lo stesso tono emotivo delle pagine di Kierkegaard:

La mia anima è così pesante che nessun pensiero è capace di portarla, nessun colpo d’ala può sollevarla verso l’etere. Se essa si muove, non riesce che a sfiorare la terra, come il volo basso degli uccelli quando minaccia l’uragano. Sulla mia anima incombe un’oppressione greve, un’angoscia che fa presentire il terremoto” (da Aut-Aut).

I volti lividi raffigurati da Munch esprimono instabilità, smarrimento, dubbio di fronte al mondo. Questo stato d’animo non ha niente a che vedere con la paura, la quale si riferisce piuttosto a qualcosa di determinato e puntuale. L’angoscia è sofferenza non tanto per ciò che accade, quanto per qualcosa che può accadere, è vertigine per quella dimensione della possibilità che caratterizza l’essere umano. E non è un caso che l’angoscia di Munch sia un sentimento in un certo senso “collettivo”, che accomuna un corteo di personaggi dagli sguardi fissi e allucinati.


DISPERAZIONE, 1892

La disperazione o vuoto interiore

Questo quadro si intitola Disperazione (1892). La scena è dominata da un individuo solitario, dal profilo indefinito, come dissolto e diluito sulla tela a sottolineare la preponderanza del contenuto interiore su quello esteriore. La disperazione è infatti un’angoscia “interna” all’anima, cioè un’angoscia individuale, psicologica: per questo le altre persone sono ritratte sullo sfondo, lontane e di spalle, nella loro indifferenza.

Anche per Kierkegaard  la disperazione riguarda la relazione dell’uomo con se stesso. Essa è “malattia mortale”, che consiste nel “vivere la morte dell’io”, il quale, nel tentativo di essere autonomamente e autenticamente se stesso, si scopre inevitabilmente prigioniero della propria finitezza e non autosufficienza.


L'URLO, 1893

L’urlo della disperazione

L’Urlo (1893) richiama la situazione solitaria e intimistica di Disperazione. Anche nell’Urlo, infatti, non c’è nulla di esterno che sembri indurre il protagonista della scena a urlare. La “vittima” della disperazione è presa da un terrore che lo assale da dentro e che si esprime nell’ossimoro di un urlo “muto”, perso e inutile in una realtà lontana (rappresentata dai viandanti sullo sfondo, dal fiordo con le due barche e dal campanile che si intravede sulla destra). Le mani premute sulle orecchie e il lungo steccato che percorre la tela, quasi a delineare il confine invalicabile tra l’individuo e il mondo, danno l’idea di un movimento interiore a cui non è concesso di esprimersi al di là dei confini dell’anima.

da La ricerca del pensiero, Paravia, vol.3


nota storico-biografica:

Negli anni Trenta e Quaranta, la propaganda nazionalsocialista perseguì le opere di Munch, definendole «arte degenerata»: queste misure vessatorie, che vennero adottate anche con le tele di Picasso, Paul Klee, Matisse, Gauguin ed altri artisti moderni, comportarono l'immediata rimozione delle 82 opere munchiane esposte nei musei tedeschi.
Munch ne soffrì amaramente, e a ciò si aggiunse la paura, sorta nel 1940 con l'occupazione nazista della Norvegia, di un imminente sequestro della sua opera omnia
Munch allora aveva 76 anni, e non era consapevole che ben settantuno sue opere avrebbero fatto poi ritorno in Norvegia, acquistate da collezionisti privati.
Munch morì nella tenuta a Ekely il 23 gennaio 1944, appena un mese dopo il suo ottantesimo compleanno.

mercoledì 4 gennaio 2017

mito e utopia


post di Roberta Raneri, 5 I


 appunti sul convegno  del 9 e 10 dicembre 2016
 “Pier Paolo Pasolini e… la profezia del Mediterraneo”
presso la  Casa San Tommaso di Linguaglossa. 




"Parlo da utopista, lo so. Ma non c’è alternativa: si deve essere utopisti oppure sparire”.  Proprio con queste parole, nelle quali si  concentra quella che è la concezione pasoliniana in merito all’utopia, inizia la relazione del professore  Francesco Coniglione nella giornata del 10 dicembre a Linguaglossa, con lo scopo di presentare con chiarezza il rapporto e la differenza tra Mito e Utopia, facendo cosi emergere  l’ utopista per eccellenza,  Pier Paolo Pasolini.
Secondo il relatore, il pensiero di Pasolini è quello che più ci aiuta a comprendere cosa si intenda per utopia o “sogno dell’occidente” e mito. L’utopia non è speranza, né significa pensare a ciò che possa essere nella sua integrità perfetto poiché l’idea di perfezione è già  frutto della speranza di reintegrazione di una condizione passata ritenuta ottimale. Solo attraverso i miti questa idea di perfezione vuole rivivere la condizione originaria, consentendole di farla emergere anche nei tempi odierni.  Tuttavia, se il mito è sogno dell’immaginazione che guarda al passato, l’utopia è rappresentata dalla ragione che fa riferimento all’età futura. Secondo l’opinione del relatore, le utopie moderne riguardano  città ideali concepite su un piano razionale,  nate durante l’età della ragione e nel momento in cui entra in crisi il millenarismo. La realizzazione dell’utopia avviene attraverso la personificazione dell’anima  e quest’ultima non si fonda sulla speranza di un paradiso, ma su un incremento della conoscenza. Ha pertanto origine  dalla scienza e consente all’uomo di uscire dalla condizione di “ferinità” per accedere ad una società migliore.  L’utopia è dunque il sogno dell’età della ragione, di una umanità uscita dal Medioevo che pone tutte le proprie speranze nello sviluppo della ragione. Il mito fa riferimento al passato, mentre l’utopia è completamente rivolta al futuro, in cui bisogna raggiungere una condizione di progresso.
Riprendendo la filosofia baconiana , il relatore sostiene che egli non fu un rivoluzionario per le concezioni scientifiche, ma lo fu perchè immaginò una società utopica governata dai sapienti, ovvero da coloro che si dedicavano alla conoscenza delle caratteristiche della natura, affinchè quest’ultima si mettesse a servizio dell’uomo.
 Possiamo parlare di utopia all’interno della società? Il socialismo è la massima espressione di questa concezione di perfezione, secondo cui  ciascuno che ricopre un ruolo ben preciso ha il compito di restare al proprio posto per una nuova finalità generale. L’utopia infatti, come già detto,  non deve prospettare un ritorno ad uno stato originario, ma descrivere uno stato o una condizione  storica alternativa. Quest’ultima esiste all’interno della società che crede in se stessa e nelle possibilità della ragione umana e della rivoluzione futura . Una società che vede il futuro come pericolo tende a guardare indietro, e quindi verso il mito,  considerato dal relatore un ricordo nostalgico, risalente all’età dell’oro.
Oggi non si scrivono più utopie ma “distopie”. - Perché?-  si chiede il professore Coniglione.  

“Perchè noi non crediamo più nelle capacità dell’uomo e nella costruzione di  un futuro mediante il solo utilizzo della ragione”