Per Zygmunt Bauman, sociologo polacco trapiantato a Leeds- Inghilterra, l'origine di tutte le
paure che percorrono il nostro presente è il declino, la scomposizione e
la scomparsa dell’organizzazione economica, sociale, e anche politica,
che andava sotto il nome di «fordismo», da intendersi come il sostrato
industriale che reggeva l’intero edificio. Questa base irradiava
sicurezze e solidità nel corpo sociale. E ciò avveniva, sì, anche grazie
alla redistribuzione della ricchezza ad opera di uno Stato capace di
provvedere alla copertura di molti bisogni, ma il «nucleo centrale» di
quella forza irradiante era sopra ogni altra cosa la «protezione» che
esso forniva, in forma di assicurazione collettiva contro le disgrazie
individuali.
Fordismo e solidità. Lo
Stato e la società occidentale dell’epoca fordista, che si sono
cominciati a incrinare negli anni Settanta del secolo scorso e che hanno
poi subito i colpi della «fase uno» (anni Ottanta) e della «fase due»
(gli anni correnti) della deregulation-individualizzazione, offrivano
non solo una diretta manifestazione della loro forza stabilizzante nei
confronti degli individui, ma anche il contesto di una solidarietà
operaia, sindacale, professionale, che scaturiva dall’organizzazione
produttiva: la fabbrica fordista era la «esemplificazione dello scenario
di modernità solida in cui si stagliava la maggior parte degli
individui privi di altro capitale». Quello era il luogo dei conflitti
tra capitale e lavoro in una relazione, ostile, ma di «lungo termine». E
questa caratteristica consentiva agli individui «di pensare e fare
progetti per il futuro».
Esposti ai colpi del destino.
Il conflitto era insomma un investimento ragionevole e un sacrificio
«che avrebbe dato i suoi frutti», mentre la condizione attuale, la
volatilità globale dell’economia, fa apparire i tentativi di ripetere
analoghi conflitti con analoghi strumenti un gioco nostalgico molto
povero di senso. L’esaurirsi di quella fase, dovuta alla pressione di
forze globali, e indipendente dalle politiche dei singoli Stati, ha
trasformato la nostra vita, ci ha reso «società aperta», ma non nel
senso popperiano di società libera, ma piuttosto nel senso di società
«esposta ai colpi del destino».
Anche il capitale politico è «liquido» e
pronto a qualsiasi investimento e coglie con prontezza le possibilità di
profitti che la paura offre in misura crescente. Grandi investimenti si
profilano di fronte allo scricchiolare della sovranità di quel
Leviatano che aveva costruito la sua forza e legittimazione proprio
sulla paura (ma restituendo protezione e sicurezza).
Esiste una risposta ragionevole a tutto questo?
Secondo Bauman la vittoria sulle insidie della paura è da
cercare sopra i confini nazionali, in una Europa sociale e, a livello
mondiale, nella creazione e nel rafforzamento di istituzioni
internazionali capaci di controllare i rischi. Lungo cammino, ma senza
alternative.
Nessun commento:
Posta un commento
scrivi qui il tuo commento, sarà visibile dopo l'approvazione