post della prof.ssa Gabriella Gullotta
Come potevamo noi
entrare in classe, aprire il registro e guardare i volti dei nostri alunni su
cui si proiettavano le immagini di altri ragazzi e di altre ragazze come loro e
che non sono più? Come potevamo?
Quando le nostre
vite vengono sconvolte, la prima cosa a cui pensiamo sono i nostri cari e
sentiamo il bisogno di stringerci a loro, di cercare, anche solo nel silenzio
intenso di un abbraccio, un conforto e poi piano piano vengono le parole con
cui si scioglie e piano piano si tampona, si definisce e si distanzia, pur se
per poco, lo strazio che invade l’anima.
E questo è stato ieri nell’Aula Magna del Liceo Leonardo, la scuola è una
famiglia di condivisione, un baluardo di condivisione da cui viene fuori quell’Europa
democratica e civile, giovane e gioiosa, quella “meglio gioventù” o quella
“generazione Erasmus” che al Bataclan e
per le strade di Parigi di un venerdì sera qualunque abbiamo visto
insanguinata. Quella stessa scuola, quella stessa società civile che quando
fallisce, quando esclude e non include, quando
non entra in risonanza con i legittimi bisogni degli ultimi porta altri
ventenni a imbracciare un kalashnikov o a indossare una cintura esplosiva per
massacrare altri ventenni, divenuti nemici per condizione, per stato e per religione.
E ci appare come una guerra civile globalizzata, a Parigi come a Kabul o a
Istanbul: ragazzi contro altri ragazzi.
Noi, gli adulti, i
docenti, i genitori le guerre non le
abbiamo vissute, ma le abbiamo studiate, le spieghiamo ricostruendone le cause
prossime e remote, ricercandone i documenti e i necessari approfondimenti, non inseguiamo
le emozioni ma cerchiamo le ragioni degli accadimenti- Noi non pensavamo che ancora un’altra guerra
potesse addensarsi all’orizzonte e insanguinare le strade delle città verso le
quali dal Liceo prepariamo i ragazzi ad andare, in una visione illuministica di
“cittadini del mondo”, di membri di una
società a cui dare la parte migliore di sé per un processo non solo di
realizzazione personale ma di progresso civile. Da tutte queste considerazione
scaturisce il turbamento di noi adulti che incontra il disorientamento e lo
stordimento dei nostri ragazzi.
Ieri, con questo
stato d’animo, ci siamo raccolti per un incontro collettivo preparato con
semplicità, affidandoci alle parole di Martin Luther King, di Quasimodo, di Grossman,
di Terzani ma anche di Isobel Bowdery, una ventiduenne scampata al massacro del
Bataclan e che nella sua intensa ricostruzione sa trovare, pur in quell’orrore,
gesti di umana solidarietà e di speranza. Parole per consolare ma anche per sforzarsi di
disegnare uno scenario diverso, di avviare una riflessione da portare in classe,
nelle attività di questi giorni che seguiranno perché l’orrore non ci investa e
non ci confonda, ma sia un’occasione preziosa per studiare la storia degli
ultimi cinquanta anni con un atteggiamento meno libresco e più critico, come
deve essere l’atteggiamento di chi cerca le cause di questo aggrovigliato
presente in cui viene scagliato. Infine un canto sussurrato sulle parole e sulla
musica senza tempo di John Lennon con la sua Imagine.
Questo è stato, in
un’Aula Magna gremita che a turni si svuotava e si riempiva, in un silenzio irreale tutta la scuola si è
raccolta come in una composta veglia.
Già oggi soffiano
altri incredibili venti e si torna nelle classi con la consapevolezza di Hannah
Arendt “la guerra non restaura diritti, ridefinisce poteri” E quindi “not in
our name”
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