La nostra rabbia è un furore che gli occidentali non possono capire.
La nostra tristezza fa piangere le pietre
Queste righe sono dedicate ad un romanzo sconvolgente, Ogni mattina a Jenin, di Susan Abulhawa.
Nelle sue 390 pagine non si trovano solo personaggi, emozioni, colori e immagini di una terra assai poco conosciuta da noi occidentali. In quelle pagine, che non vorresti mai completare di leggere, si trova una storia ignorata e nascosta ai più, un dramma consumato ed ancora perpetrato senza un motivo che la civiltà dell'Occidente "illuminato" sia in grado di spiegare, nè tantomeno di capire.
La storia della disumanità del secondo Novecento in Medio Oriente.
Una storia che segue la disumanità dei campi di concentramento quando non avrebbe dovuto farlo, quando avrebbe SOLO dovuto condannarla. Eppure è stata scritta sulla pelle di un popolo che aveva in Palestina le proprie case, il lavoro, gli affetti, le speranze del futuro.
Dopo aver letto il romanzo si aprono le finestre di un mondo di tragedie e dolori che non siamo stati mai invitati a visitare e che non possiamo più cancellare dalle mappe della nostra intelligenza e sensibilità.
Con la scrittrice si può comunicare attraverso il suo sito (http://morningsinjenin.com/), una buona idea per non finire la visita della Palestina con la lettura di questa straordinaria narrazione....facciamolo, sarà un piccolo gesto di solidarietà..
Grazie Susan
hanno scritto:
Non è solo un racconto corale o un affresco familiare ma il dramma della Palestina quando nel 1948 “Smette di tenere il conto dei giorni, mesi e anni per diventare solo foschia infinita di un preciso momento storico”.
Secondo la scrittrice ogni scrittore palestinese quando scrive, a prescindere da ciò che scrive, fa un atto di resistenza perché fa parte di un popolo a cui hanno cancellato il proprio posto sulle mappe; così qualsiasi espressione artistica diventa atto politico. “Ogni mattina a Jenin” vuole essere anche un atto di denuncia verso la leadership palestinese che non ha saputo stringere il suo popolo attorno al proprio destino, senza ascoltarlo, lo ha lasciato in balia dei conflitti interni tra le fazioni. Leadership spesso intenta a definire e ridefinire limiti, confini di uno Stato inesistente per compiacere le richieste dell’Altro, inseguendo una pace senza giustizia.
Così non ha saputo vedere la vita reale delle strade, delle carceri, insomma la vita di tutti i giorni sotto occupazione. Con questo libro Susan Abulhawa, palestinese che vive negli Stati Uniti, ci trasmette un grande valore che appartiene al popolo palestinese: il senso d’identità. Non è la creazione di una struttura politica a definire l’identità, non è la nazionalità che fa si che si diventi palestinesi ma l’appartenenza a quella terra significa possedere certe tradizioni, cibi, costumi, musica e soprattutto ricordi.
Yaheya e Bassima, Hassan e Darwish, Dalia, Yussef e Isma’il, Fatima, Amal e Majid, Falastin e Sara. Più di sessant’anni di storia, dal 1941 al 2002. Sono gli anni della guerra tra Israele e Palestina, gli anni della distruzione e della devastazione, degli scontri tra culture sorelle ma dal rapporto problematico. Una famiglia come tante, emblema delle disgrazie che inutili conflitti hanno riversato su intere generazioni. Donne e uomini, padri, madri, figli, mariti e mogli. Nel 1941 la guerra tra Israele e Palestina inizia a sconvolgere intere popolazioni. Bassima ama le rose, forse più del marito Yaheya, dal quale ha avuto due bei figli maschi, proprio come vuole la cultura e la tradizione araba. Sono Hassan e Darwish, anime simili e contrastanti allo stesso tempo, animati da un amore viscerale tra fratelli, amore che porta Darwish a rinunciare a Dalia per favorire il fratello Hassan. Dalia: beduina ribelle, donna forte e risoluta. Più che innamorata di Hassan, ama il cavallo di Darwish, ma decide di sposare il fratello, dal quale ha i primi due figli maschi: Yussef e Isma’il. Dalia è una madre e moglie devota, legata ai propri figli e alla propria terra, rappresentata da Jenin, piccola cittadina araba. Proprio quella città diventa presto teatro degli assassinii tra fratelli, alla ricerca di un’autonomia personale, di una cultura individuale, in una distanza incolmabile per tradizioni e religione. La vita di Dalia viene sconvolta dalla scomparsa del figlio Isma’il, un piccolo bambino di quattro anni con una cicatrice vistosa sul volto, causata dal fratello Yussef. Sarà questo segno particolare la chiave di volta della storia della famiglia, quando Sara, nipote di Dalia e figlia di Amal, ultima creatura che la beduina aveva messo al mondo dopo aver perso Isma’il, decide di fare luce sul suo passato e su quello della famiglia di sua madre, certa di alcune mancanze, di lacune. Tutto dettato da una madre che si era rifiutata di ripercorrere anni terribili, le cui conseguenze avrebbero tardato a scomparire completamente. Eppure l’amore domina tutto: storie di passione, di amicizia, di rispetto e di amore fraterno, sullo sfondo dello scontro arabo-palestinese…
Susan Abulhawa ha scritto un romanzo toccante, paragonato a Il cacciatore di aquiloni per intensità e tematica. Tra le sue pagine si alternano delle voci, a volte con un racconto in prima persona, altre con la descrizione di azioni e pensieri. Le parole, i pensieri e le azioni di generazioni colpite e afflitte da una guerra che non hanno voluto e non vogliono avere, sono dense di tutto il dolore e di tutta la nostalgia delle atmosfere, dei profumi e dei suoni di Jenin. - leggi qui
Susan Abulhawa è nata da una famiglia palestinese in fuga dopo “La guerra dei Sei Giorni” e ha vissuto i suoi primi anni in un orfanotrofio a Gerusalemme. Adolescente, si è trasferita negli Stati Uniti dove si è laureata in Scienze Biomediche e ha avuto una brillante carriera. Vive in Pennsylvania. Autrice di numerosi saggi sulla Palestina, ha fondato l’associazione Playgrounds for Palestine che si occupa dei bambini dei territori occupati.
Nessun commento:
Posta un commento
scrivi qui il tuo commento, sarà visibile dopo l'approvazione