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Oriente ed Occidente


post di Leandro Gullino
classe 4 G


Filosofie a confronto: tra Oriente e Occidente
Platone e il Mahabharata (testo induista tra i più antichi al mondo)



Poco tempo fa ho letto il Fedro di Platone e subito dopo un testo dell’antica tradizione induista, dal titolo Sanatsujatiya.
Ho trovato nelle due opere concetti ed immagini filosofiche molto simili, addirittura gemelle nel caso del mito della “biga alata”, come dirò più avanti.
In questo mio articolo vorrei dimostrare la presenza di Archetipi del collettivo nel genere umano, in culture e società distanti geograficamente e temporalmente fra loro. 






UN INCONTRO NECESSARIO



a cura della prof.ssa Pia Vacante


ORIENTE E OCCIDENTE

Fin dalla notte dei tempi l’uomo ha cercato risposte al suo essere sulla terra, ha cercato il senso di questa avventura nel mondo e si è proiettato lontano, nel tentativo sempre in fieri di comprendere e penetrare il mistero che accompagna la vita e ci spinge alla ricerca, all’eterna ricerca che la filosofia rappresenta.
In qualsiasi tempo e luogo del mondo l’uomo si è posto e si pone gli stessi interrogativi sul significato profondo della propria esistenza e delle cose tutte. Le soluzioni a questi fondamentali quesiti sono molteplici e dipendono da una serie di fattori culturali e sociali diversi, e da molto altro ancora.
Eppure, in questa apparente diversità, molte analogie sussistono e il blog ne proporrà la scoperta. Infatti, i temi che tratteremo, più che le differenze, tenteranno di evidenziare le corrispondenze tra i due grossi blocchi di pensiero, rappresentati dalla visione orientale e da quella occidentale.
Il focus principale interesserà la filosofia pre-socratica e i suoi interpreti, e il pensiero dell’India classica.




INTRODUZIONE AL BUDDHISMO

Lo stile di pensiero buddhista nasce in India nel VI secolo a. C, nello stesso periodo in cui in Grecia con i presocratici nasce il pensiero filosofico occidentale.
Nel 566 a.C, anno della nascita del principe Siddharta, il futuro Buddha (cioè l’Illuminato), si contavano in India ben 62 scuole di pensiero.
Figlio di un re della potente famiglia degli Shakya, il principe Siddharta visse per 29 anni nella meravigliosa corte del padre, ignorando per volontà di quest’ultimo i drammi più dolorosi dell’esistenza. Ma proprio a 29 anni avvenne una svolta che modificò radicalmente la sua prospettiva sul significato della vita.
Fuggito con l’aiuto di un servo dal paradisiaco palazzo paterno, il giovane principe ebbe una serie di incontri emblematici: con un vecchio, con un ammalato, vide per la prima volta un uomo morto ed infine incontrò una asceta.
La scoperta della vecchiaia, della malattia e della morte, verità di vita da cui il padre l’aveva fino ad allora tenuto lontano, lo condussero alla decisione di avviare una ricerca personale sul significato del viaggio umano.
Dopo sei anni di ricerca e dopo aver seguito molteplici insegnamenti spirituali, finalmente sotto un albero di asathi, ottenne l’Illuminazione.
Avendo compreso qual è la “vera natura della realtà”, dedicò la sua vita a percorrere l’India in lungo e in largo per trasmettere, con i suoi famosi discorsi, le verità a cui era pervenuto.
L’insegnamento originario del Buddha si può riassumere nelle Quattro Nobili Verità. La prima Verità sostiene che tutto è dolore; la seconda dice che il desiderio è l’origine del dolore; la terza tratta della possibile cessazione del dolore ed infine la quarta illustra la via che conduce alla cessazione del dolore.
Soffermiamoci sulla prima Nobile Verità, cercando di comprendere cosa significa che “tutto è duhkha”, cioè dolore, sofferenza.

Questa, oh monaci, è la nobile verità del dolore: la nascita è dolore, l’invecchiamento è dolore, la malattia è dolore, la morte è dolore; la vicinanza con ciò che è spiacevole è dolore, la separazione da quel che è piacevole è dolore, il non ottenere ciò che si desidera è dolore”.

Così parla la Prima Nobile Verità, la verità del dolore.
Ma che cos’è Duhkha, il dolore?
Comunemente il termine sanscrito Duhkha viene tradotto col termine italiano “sofferenza”.
Nei testi buddhisti vengono enumerate molteplici tipologie di Dhuhkha: “il dolore della nascita, il dolore della vecchiaia, il dolore della morte, la sofferenza psichica, la lamentazione, la sofferenza mentale, il dolore dovuto a forti turbolenze mentali che possono condurre ad un mancamento, il dolore per la vicinanza con oggetti spiacevoli o che non si amano e il dolore per la lontananza dagli oggetti piacevoli o che si amano, il dolore per ciò che si vorrebbe avere e non si riesce ad ottenere”.
Ma se vogliamo avvicinarci al significato profondo di Dhuhkha, più che all’infinito numero di sofferenze possibili, bisognerebbe pensare a Dhuhkha come una qualità dell’esistenza, imprescindibile dalla stessa.
Se usiamo il linguaggio occidentale, potremmo rendere il termine Dhuhkha con: angoscia esistenziale.
Il senso dell’umana precarietà e il dolore che ne deriva, Dhuhkha, per l’appunto, sono la diretta conseguenza di Anicca, la legge dell’impermanenza. L’impermanenza è considerato il nemico per eccellenza del senso di onnipotenza dell’ego che, come tutte le altre cose, è sottoposto alla legge dell’impermanenza.
Tutto è in continua trasformazione, esattamente come diceva Eraclito, contemporaneo del Buddha: “negli stessi fiumi entriamo e non entriamo, siamo e non siamo … entrano negli stessi fiumi, ma acque sempre diverse scorrono verso di loro”
Istante dopo istante tutti noi siamo “gettati” dentro il fiume della vita che scorre inesorabile, impedendoci di aggrapparci a qualsiasi “forma” o “sostanza” che abbiano il carattere dell’immutabilità.
Ma perché il dolore è legato all’impermanenza?
Tutto è in costante divenire, qualunque condizione all’interno della nostra esistenza è destinata al cambiamento, tutte le cose esistenti subiscono forme costanti di trasformazione. A causa del cambiamento costante a cui sono sottoposte, tutte le cose sono insoddisfacenti e, soprattutto, ogni cosa soggetta al cambiamento può essere causa di dolore.
L’impermanenza è abbastanza semplice da comprendere, perché la nostra esperienza nel mondo ne è continua testimonianza: il nostro partner può lasciarci, le nostre sicurezze fondate sul lavoro, sulla casa o quant’altro sono prima o poi destinate a vacillare; la cosa più sconcertante è che non possiamo evitare tutto questo.
Il punto fondamentale non è però il fatto che le cose cambiano: è piuttosto l’attaccamento che nutriamo nei confronti di esse la causa principale del nostro dolore. Infatti ogni cosa piacevole o godibile non resta tale, prima o poi è destinata a finire, generando in noi insoddisfazione, dolore, sofferenza. Dobbiamo sempre affrontare il dolore che viene causato dal cambiamento e prenderne atto.
Ma il cambiamento non ha solo un lato negativo, le cose non debbono necessariamente peggiorare, possono anche diventare migliori e questo vale anche per noi stessi. Alla luce della comprensione dell’impermanenza possiamo evolverci, crescere e praticare un sentiero spirituale quale quello che la saggezza del Buddha ci ha lasciato.
D’altra parte se le cose (compresi noi stessi) fossero permanenti, non potremmo neanche evolverci ed eliminare “il desiderio, l’avversione e l’ignoranza o illusione sulla vera natura delle cose”, i tre Klesha, i tre veleni, che contaminano la nostra mente e le azioni che da essa derivano.

Cosa ne pensate? Cos’è per voi il dolore?

In attese di tante risposte vi auguro buone riflessioni.

2 commenti:

  1. Sono sempre stata appassionata dalla cultura orientale, e ho trovato molto interessante questo elaborato. Mi trovo d'accordo con lei sul fatto che ogni cosa soggetta al cambiamento può essere causa di dolore. E dato che tutto cambia (Panta rei) come diceva Eraclito siamo soggetti a continuo dolore. Questo dolore però non è sempre costante perché vi è una continua alternanza tra gioia e dolore; e nessuno di essi sovrasta totalmente l'altro. Così ognuno di noi, in modo soggettivo, vive il dolore nella speranza che muti in gioia.

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  2. Risponde Pia Vacante:

    Vorrei soffermarmi sull’ultima frase del tuo commento e provare ad elaborarla in maniera più esaustiva. Dal punto di vista squisitamente umano, terreno, l’uomo tende naturalmente verso il piacere e la felicità anche se, volente o nolente, deve comunque confrontarsi col dolore. Dal punto di vista dello stile di pensiero buddhista l’uomo dovrebbe emanciparsi da entrambi gli opposti che in fondo si convertono l’uno nell’altro: il piacere diventa fonte di attaccamento e quindi di dolore e viceversa. Un’immagine classica dell’India evoca il fiume della vita che scorre tra le due sponde che rappresentano la prima coppia duale da cui traggono origine tutti gli altri contrari: piacere e dolore. Il fiume della vita dovrebbe evitare di cristallizzarsi in una delle due sponde e fluire libero da legami, nell’eterno presente. Considerata la transitorietà di ogni cosa, compreso lo stesso “io”, la “mente” e i suoi oggetti, cioè i pensieri, la meta suprema viene indicata nel divellere ogni legame per raggiungere lo stato di Kaivalya, la liberazione. Questo stato, il Nibbana (trasformazione in lingua Pali del termine sanscrito Nirvana), in cui si raggiunge il completo distacco dagli oggetti materiali e da quelli celesti, lungi dall’essere uno stato di apatia o di indifferenza è viceversa uno stato in cui “l’uomo è libero da tutti i complessi e le ossessioni. Non ripensa al passato, né desidera il futuro, ma vive piacevolmente nel presente. Egli è gioioso, libero da ansietà, sereno e in pace. E’ libero dai desideri personali, dall’odio, dall’ignoranza, è puro e gentile, pieno di amore universale, compassione, tolleranza e consapevolezza. Non accumula niente, neanche cose di natura spirituale, perché è libero dall’illusione del Sé.” Il virgolettato è una citazione da “What the Buddha taught” di Walpola Rahula, professore di filosofia buddhista all’università di Colombo, Sri Lanka.

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